VINCENZO MOSCHETTI | INTERVISTA
PARLANDO DI ME
I riferimenti alla formazione costituiscono per me uno scavo profondo fra i ricordi per cui nutro una nascosta “gelosia”, come fosse un’infanzia a volte felice ed altre terribilmente oscura, qualcosa che con il tempo ancora si sta precisando. Questa oscura innocenza è sicuramente il significato assoluto a cui posso ricondurre la mia attuale educazione avvenuta principalmente tra le aule e la lettura. Ho disegnato poco e letto troppo, e questo ha innescato in me interessi tangenti all'architettura più che all'architettura in sé come fatto costruttivo.
Il Mediterraneo ha racchiuso, quale tema, quello che cerco e che intendo per ora. Sono nato in una città di porto agli inizi degli anni ’90 in cui si spingeva verso un’importante modificazione del paesaggio condizionata dalla produttività industriale. La mia città era ed è dimenticata ma l’immutabilità del mare appare come costante rispetto ai cambiamenti topografici – il mare è ciò che restava - ritornando stabilmente come riflesso, o come sicurezza del quotidiano. Abbiamo sempre bisogno di qualcosa di certo, un ritrovamento – questo - avvenuto nel mare. Il mare è stato per me la più grande scoperta e la felicità, mentre tutto alle spalle si trasformava appunto in qualcosa di poco chiaro e definitivo, in un corpo scarno.
Il Mediterraneo ha fra gli abissi un segreto profondo: quello di un cantiere continuo, custode di frammenti e reliquie, di sepolture pronte a riemergere come elementi identificativi. Lo sguardo dell’Atleta dalla Villa dei Papiri, immortalato da Mimmo Jodice nel 1986, forse aiuta a comprendere meglio l’idea personale che ho di questo mondo ancora da poter esplorare, osservare e “saccheggiare”. È la mia immagine fissa appartenente ad un ciclo senza fine.
AMORE PURO
Torna alla mente un film del 1974 diretto da Ettore Scola: “C’eravamo tanto amanti”. Alcuni fotogrammi difatti ne rappresentano la risposta, un amore - quello per la rappresentazione - che per il momento ho dimenticato per necessità.
“Antonio: Ma tu e Gabriella non vi volevate bene? Nicola: Sì, ma non basta.”
In un certo senso è come se volontariamente abbia “dimenticato quello che non si può possedere” (Aldo Rossi, 1989) in un circolo di distanze invisibili in cui è assente uno stile grafico, ma dove è sempre presente il colore azzurro come condizione di una permanenza quasi affettiva (mare? lago? cielo? infanzia? … non so). Ultimamente ho letto che Rossi chiamava una precisa tonalità di azzurro, usata per la sua camera nella casa di Ghiffa, come il “celeste della Madonna” … questo si ripete ed è una costante. Ognuno di noi ha qualcosa che ritorna negli sguardi, nelle case, nei cantieri o sui vestiti.
In questo modo è chiaro come abbia avuto tanti amori in architettura di cui rimangono principalmente due residui: Luìs Barragán e Aldo Rossi. In questo mondo di passioni molto diverse ho trovato rifugio in tanti altri riferimenti tra cui mi piace ricordare James Stirling o Sverre Fehn o il più nascosto Aris Konstantinidis. Capisco che il contributo di ognuno, mettendolo a sistema, possa creare confusione ma ciascuno di essi è stato capace di trasferirmi qualcosa che possa andare oltre la mera costruzione proponendomi occasioni di estremo divertimento e di rovesciamenti, osservazioni oscillanti tra la città e la campagna, tra le Americhe e l’Europa. E poi chissà quante immagini e mondi mi hanno influenzato di cui non conosco gli autori e di cui rimangono riflessi gli oggetti o più semplicemente le atmosfere.
Elementi che ritornano nei pochi disegni ma che ho sempre voglia di condividere o di fissare come fossero oggetti del desiderio irrealizzabili.
IL GIOCO DELL'ARCHITETTURA
Parlare di architettura è certamente parlare allo stesso modo di tre strumenti necessari e imprescindibili: scrittura, immagine/disegno e costruzione, l’una contiene l’altra e viceversa. Quello dell’architettura è un gioco continuo a cui serve mescolare le carte e sovrapporre memorie, ricordi che abbiano un reale futuro. Questi sono i tre temi essenziali attraverso cui l’architettura si avvera, attraverso cui è possibile creare un accesso alla realtà anche immaginaria o forse necessariamente verosimile. Se dovesse venir meno la sussistenza e il rapporto tra questi aspetti si è destinati allora a cadere perdutamente nell’edilizia o di qualcosa ad essa prossima. L’illustrazione contiene in sé i legami che tengono in vita l’architettura sia prima che dopo la sua costruzione consegnando all’osservatore comunque l’immagine di un sogno, di una possibilità in cui cercare una risposta. Il disegno, come il modello esprime davvero una condizione di promesse a cui dovremmo sempre tendere.
ILLUSTRAZIONE E PERMANENZA
Il potere dell’immagine sta nel suo stesso significato temporale, difatti essa può arrivare in un doppio momento, in un processo che precede o succede lo stato della costruzione. Il disegno è la permanenza di un’idea fisica e spirituale che deve star dietro o dentro la struttura dell’architettura assumendo – rossianamente – l’ossessione di una persistenza. Il disegno, intendo con questo anche i collages ovviamente, stabilisce comunque qualcosa di incerto ma in questo proprio stato di attesa v’è comunque qualcosa di stabile, qualcosa che identifica il corpo dell’architettura (costruzione) con il fenomeno dell’architettura (illustrazione/scrittura).
Molte città sono scomparse, così come le architetture che ne costituivano la fisicità, ma siamo capaci di parlare ancora di esse in virtù delle rappresentazioni come esperienza di una fenomenologia compositiva in cui riusciamo ad estrapolare ancora temi e nuove composizioni che ancora si precisano.
Ho in mente il “Noli me tangere” del Beato Angelico e di come questa raffigurazione abbia in sé infiniti progetti di architettura. Non si conosce bene la provenienza “territoriale” di questa immagine ma sappiamo che essa è custode di qualcosa di più forte, di un carattere che esprime nella sua composizione elementi progettuali: caverna/tomba/casa, cortile/giardino e recinto, qualcosa di ancora possibile e vivo. In questo senso viene da pensare come la rappresentazione iconografica possa appartenere ad un eterno presente e di come essa sottenda in questo senso infinite combinazioni progettuali. Cosa c’è in quella caverna? In che modo è stata scavata? Che luce entra nel suo ventre? Sono queste le domande che guidano a distanza di secoli i miracoli di quelle rappresentazioni guidate dai dubbi più che dalle certezze.
CONCLUDENDO
“Altre voci, altre stanze” è il riassunto di questo breve discorso. Qualcosa di molto lontano preso in prestito da Truman Capote e che raccoglie, come promessa, le tre immagini (più una preziosa) che mi sono state chieste e che vi allego con piacere sperando che un giorno possano essere costruite e reinventate secondo un circolo senza fine. Il bracco di Weimar che scopre il Mediterraneo è la chiave per capire tutto quello che è venuto dopo, anche se in realtà è appartenuto ad un tempo passato o addirittura remoto.
Nella speranza che si possa ancora credere all’Architettura, sempre!