“Call for Illustrations” è un contest, curato da Library, che ha l’intento di porre l’attenzione su una ricerca grafica incentrata sulle riflessioni e le tematiche emerse dagli incontri dell’iniziativa “Oltre il Giardino – Sei conversazioni ai limiti della disciplina” a cura del G6 e promossa dal Dipartimento di Architettura dell’Università di Pescara.
CFI #2 | IL PROGETTO E LA DESCRIZIONE GEOGRAFICA | RISULTATI
Il Progetto e la Descrizione Geografica | Franco Farinelli
Tomas More nel 1516, da letterato umanista, definisce quello che per gli architetti è sempre stato il "progetto dei progetti", ovvero conia il termine "Utopia". L’agire utopico trova i suoi fondamenti antropologici nel "Repubblica" di Platone, passando per la città di Babele e arrivando ai giorni nostri, ma è in pieno Rinascimento che il concetto diviene disegno dell’archetipo utopico. Le Tavole di Urbino, Berlino e Baltimora o i vari trattati di Filarete o di Francesco di Giorgio sono le rappresentazioni di una "ou-topia", ovvero di un non-luogo, <> (H. Damish, Le Tavole della città ideale). Quelle sperimentazioni hanno fornito, disegnato e influenzato le regole delle città contemporanee, ed è vostro il compito di rileggere la classicità non basandosi, solo, sulle analisi filologiche ma in quanto diretti discendenti. Riflettere sui classici, guardarli con un occhio proiettato verso la modernità, con la consapevolezza che “il richiamo dei classici è il più spericolato tra i rischi poiché il mondo attuale viaggia in maniera energica”. (Franco Farinelli)
1° PREMIO (scelto da Library)
Marco Proietti. SU
Voto: 8,9 (attinenza al tema: 9,2 //coerenza tra testo e immagine: 8,8 //ricerca grafica: 8,8 //qualità della riflessione: 9,0)
In un mondo dove l’architettura è cristallizzata, infini-tamente ripetuta, escludente, rigida, l’utopia è il suo opposto. Un’architettura non di pietra, ma capace di sciogliersi sul calore del nostro spirito, di ogni spirito. Una babele che non cerca più di arrivare al cielo immanente, ma che abbracciandoci nel suo turbinio di significati, discende, per mutare ciò che è in terra.
Marco Proietti. SU
Voto: 8,9 (attinenza al tema: 9,2 //coerenza tra testo e immagine: 8,8 //ricerca grafica: 8,8 //qualità della riflessione: 9,0)
In un mondo dove l’architettura è cristallizzata, infini-tamente ripetuta, escludente, rigida, l’utopia è il suo opposto. Un’architettura non di pietra, ma capace di sciogliersi sul calore del nostro spirito, di ogni spirito. Una babele che non cerca più di arrivare al cielo immanente, ma che abbracciandoci nel suo turbinio di significati, discende, per mutare ciò che è in terra.
1° PREMIO (SCELTO DAL G6)
Fabrizio Sclocco. Mera illusione
Voto: 8,9 (attinenza al tema: 8,8 //coerenza tra testo e immagine: 9,0 //ricerca grafica: 8,6 //qualità della riflessione: 9,4)
L’agire utopico porta spesso al fallimento della società stessa e del singolo individuo. Egoisticamente o malinconicamente, ci rifugiamo su queste isole, il più delle volte irraggiungibili dagli altri, alla ricerca di un possibile miglioramento. Ci illudiamo o semplicemente siamo incompresi. All’occhio umano, il nero predomina la tela, la quale illustra un’utopia di una realtà moderna offuscata. La stratificazione e il passo frenetico della società odierna possono essere codificati solamente grazie alla costante proiezione di un sorgente luminosa sul dipinto stesso, in cui la materia lucida e quella opaca danno vita alle forme dell’illusione stessa. Senza questa sorgente, l’utopia non esiste: la tela nera.
Fabrizio Sclocco. Mera illusione
Voto: 8,9 (attinenza al tema: 8,8 //coerenza tra testo e immagine: 9,0 //ricerca grafica: 8,6 //qualità della riflessione: 9,4)
L’agire utopico porta spesso al fallimento della società stessa e del singolo individuo. Egoisticamente o malinconicamente, ci rifugiamo su queste isole, il più delle volte irraggiungibili dagli altri, alla ricerca di un possibile miglioramento. Ci illudiamo o semplicemente siamo incompresi. All’occhio umano, il nero predomina la tela, la quale illustra un’utopia di una realtà moderna offuscata. La stratificazione e il passo frenetico della società odierna possono essere codificati solamente grazie alla costante proiezione di un sorgente luminosa sul dipinto stesso, in cui la materia lucida e quella opaca danno vita alle forme dell’illusione stessa. Senza questa sorgente, l’utopia non esiste: la tela nera.
1° PREMIO (SCELTO DAI SOCIAL)
Dijana Bukvic, Tatsuya Saeki. Il mito del paradiso moderno
Voto: 8,0 (attinenza al tema: 7,5 //coerenza tra testo e immagine: 9,4 //ricerca grafica: 7,3 //qualità della riflessione: 7,9)
Il nostro mito narra di un’utopica unione tra passato e moderno. La parola paradiso nel linguaggio antico significava “spazio recintato” e l’estensione geografica era il sommo vertice della conoscenza. Nella nostra immaginazione il paradiso è un’area suburbana di Tokyo, intorno ad essa il deserto. Il muro, tema di grande attualità, presenta delle porte di accesso che conducono al paradiso e sono salvaguardate dai detentori del potere che decidono le sorti dei popoli. All’interno del recinto si incrociano strade che generano spazi abbandonati della città contemporanea privi di qualità estetiche. La strada è solamente un’infrastruttura che ha cambiato la città, è solo il mezzo per arrivare al paradiso, ma non ci sono fermate, lo scorrimento veloce non permette all’uomo di scendere. Il centro del giardino dell’Eden è il luogo dove nasce la vita, qui paradossalmente accade lo stesso, il triangolo residuale diventa il polmone verde mediante il quale la città respira.
Dijana Bukvic, Tatsuya Saeki. Il mito del paradiso moderno
Voto: 8,0 (attinenza al tema: 7,5 //coerenza tra testo e immagine: 9,4 //ricerca grafica: 7,3 //qualità della riflessione: 7,9)
Il nostro mito narra di un’utopica unione tra passato e moderno. La parola paradiso nel linguaggio antico significava “spazio recintato” e l’estensione geografica era il sommo vertice della conoscenza. Nella nostra immaginazione il paradiso è un’area suburbana di Tokyo, intorno ad essa il deserto. Il muro, tema di grande attualità, presenta delle porte di accesso che conducono al paradiso e sono salvaguardate dai detentori del potere che decidono le sorti dei popoli. All’interno del recinto si incrociano strade che generano spazi abbandonati della città contemporanea privi di qualità estetiche. La strada è solamente un’infrastruttura che ha cambiato la città, è solo il mezzo per arrivare al paradiso, ma non ci sono fermate, lo scorrimento veloce non permette all’uomo di scendere. Il centro del giardino dell’Eden è il luogo dove nasce la vita, qui paradossalmente accade lo stesso, il triangolo residuale diventa il polmone verde mediante il quale la città respira.
MENZIONE D'ONORE
Artemis Papachristou. Museum of everyday use
Voto: 8,3 (attinenza al tema: 7,1 //coerenza tra testo e immagine: 9,4 //ricerca grafica: 8,0 //qualità della riflessione: 8,8)
This place is a platform for rethinking P.Bourdieu’s term “habitus”, an alive archive of inhabitation and of the performativity of everyday life. All the household is organised, presented and named differently as if it was a work of art. Each room is designed with a mechanism that gives an ambiguous experience and creates an uncanny feeling on the normal living.At the same time,every function becomes an exhibit. It is a museum where the visitor becomes a user and at the same time an exhibit himself. A place where the distinct animality of the human being is under observation. In this way, it acts as an ironic reference to the way we overshare our lives through social networks today.
Artemis Papachristou. Museum of everyday use
Voto: 8,3 (attinenza al tema: 7,1 //coerenza tra testo e immagine: 9,4 //ricerca grafica: 8,0 //qualità della riflessione: 8,8)
This place is a platform for rethinking P.Bourdieu’s term “habitus”, an alive archive of inhabitation and of the performativity of everyday life. All the household is organised, presented and named differently as if it was a work of art. Each room is designed with a mechanism that gives an ambiguous experience and creates an uncanny feeling on the normal living.At the same time,every function becomes an exhibit. It is a museum where the visitor becomes a user and at the same time an exhibit himself. A place where the distinct animality of the human being is under observation. In this way, it acts as an ironic reference to the way we overshare our lives through social networks today.
MENZIONE D'ONORE
Gianni Morini. La terra dei giganti
Voto: 8,3 (attinenza al tema: 7,6 //coerenza tra testo e immagine: 8,4 //ricerca grafica: 8,9 //qualità della riflessione: 8,2)
Sublime e atroce è l’attitudine di certi luoghi a non conciliare mai gli opposti, a conservarli irriducibili, a coltivarne la disperata, inquietante alterità. Le Apuane, emblema di un popolo la cui scontrosa natura lotta quotidianamente con una foscoliana Matrigna, sono uno smisurato, surreale antro infernale che irride, candido, alla fragile caducità umana. Domina severo e immobile il silenzio e rende inconciliabile l’immagine mitigatrice e rassicurante della costa, tanto vicina quanto estranea. Le pareti delle cave sono nette, precise, scalfite da affilati chiaro-scuri dove ogni elemento è percepito nella potenza espressiva del suo volume, come nel romanico pisano, dalla sovrapposizione plastica di luci e ombre. Come il sogno michelangiolesco di scolpire nella roccia “un colosso che da lungi apparisse a’naviganti”, è ancora possibile comporre un calco irriverente di antichissime architetture rupestri mimando il lavoro dei cavatori, per creare un tempio alla memoria degli uomini?
Gianni Morini. La terra dei giganti
Voto: 8,3 (attinenza al tema: 7,6 //coerenza tra testo e immagine: 8,4 //ricerca grafica: 8,9 //qualità della riflessione: 8,2)
Sublime e atroce è l’attitudine di certi luoghi a non conciliare mai gli opposti, a conservarli irriducibili, a coltivarne la disperata, inquietante alterità. Le Apuane, emblema di un popolo la cui scontrosa natura lotta quotidianamente con una foscoliana Matrigna, sono uno smisurato, surreale antro infernale che irride, candido, alla fragile caducità umana. Domina severo e immobile il silenzio e rende inconciliabile l’immagine mitigatrice e rassicurante della costa, tanto vicina quanto estranea. Le pareti delle cave sono nette, precise, scalfite da affilati chiaro-scuri dove ogni elemento è percepito nella potenza espressiva del suo volume, come nel romanico pisano, dalla sovrapposizione plastica di luci e ombre. Come il sogno michelangiolesco di scolpire nella roccia “un colosso che da lungi apparisse a’naviganti”, è ancora possibile comporre un calco irriverente di antichissime architetture rupestri mimando il lavoro dei cavatori, per creare un tempio alla memoria degli uomini?
MENZIONE D'ONORE
Claudia Consonni. Favolas
Voto: 8,4 (attinenza al tema: 8,6 //coerenza tra testo e immagine: 9,0 //ricerca grafica: 7,6 //qualità della riflessione: 8,4)
Ti scrivo di Favolas. Potrebbe essere un sogno notturno o forse un’ancestrale paura. Sta di fatto che credo di essere capitata in una città invivi(si)bile. Ovunque voltassi lo sguardo, non vi era un cartello indicatore di via, piazza, direzione, divieto, distanza. Era il luogo più reale e tragico nel quale potessi mettere piede e sentivo una strana attrazione. Decidevo di restare. Per tutto il tempo ho avuto la percezione che le città degli uomini stavano per diventare organismi dalla crescita incontrollata e non sempre in buona salute: da almeno 500 anni erano state smantellate le serre di More in cui si coltivavano le città ideali; ne restavano ancora alcuni esemplari sparsi qua e là, forme ibride e snaturate da sovrapposizioni e contaminazioni. Mi ritornava la visione degli alberi che abitavano la terra milioni di anni fa, e poi gli uomini che addomesticavano gli alberi e le pietre. C’è stato un tempo in cui abbiamo vissuto nel deserto sotto le tende e le costellazioni si aggrappavano al buio. Quando ci sentivamo minacciati dai lupi e dallo straniero, un fossato e una palizzata ci facevano sentire al sicuro. E in tempi felici abbiamo aperto una piazza con portici e colonne. Alte, una sull’altra. Elevate. Come quella volta a Babele. E dopo di allora, migliaia di tentativi e innumerevoli torri. Infine, quante città? Qualcuno si è mai preso la briga di contarle? La foresta di cemento è cresciuta a vista d’occhio e nel sottobosco le baracche come i bulbi a primavera, spingono verso la luce e si propagano, si propagano, si propagano. Ora che il deserto ha le sue torri orizzontali e il mare i suoi cimiteri liquidi, voglio mostrarti una cosa: lassù all’ultimo piano c’è una finestra aperta, qualcuno sta aspettando che faccia buio per assicurare il suo respiro ad una stella. Fa così ogni sera. Soffre di vertigini. Scusa se insisto caro C. In questo miscuglio di metafore vorrei trovare una risposta alla domanda: “Che cosa sono oggi le nostre città?” . La nuova tavola della città contemporanea potrebbe prendere questa forma tanto irreale quanto possibile? Come erano ideali e utopiche le Tavole delle città del Rinascimento, come inesistenti e fantastiche le città invisibili, così è frutto di invenzione anche Favolas. Il rischio che non sia solo una visione personale e un po’ drammatica, ma che possa realizzarsi, temo che esista. Penso agli insediamenti spontanei e alle periferie urbane in cui una città cresce nella città, dentro e sopra la città, senza un ordine preciso, o un progetto. Per necessità. Per disperazione. Nessuna nostalgia e pochi indugi come puoi notare, solo necessità di continuare a salire. La solita sfida o il desiderio di conquista mai sopito nel cuore di ogni uomo. Ma la meta è il cielo e ogni cosa lassù si tinge d’azzurro. Ecco la Favola(s) è conclusa e il finale, come in tutte le favole, vuole essere almeno lieve.
Claudia Consonni. Favolas
Voto: 8,4 (attinenza al tema: 8,6 //coerenza tra testo e immagine: 9,0 //ricerca grafica: 7,6 //qualità della riflessione: 8,4)
Ti scrivo di Favolas. Potrebbe essere un sogno notturno o forse un’ancestrale paura. Sta di fatto che credo di essere capitata in una città invivi(si)bile. Ovunque voltassi lo sguardo, non vi era un cartello indicatore di via, piazza, direzione, divieto, distanza. Era il luogo più reale e tragico nel quale potessi mettere piede e sentivo una strana attrazione. Decidevo di restare. Per tutto il tempo ho avuto la percezione che le città degli uomini stavano per diventare organismi dalla crescita incontrollata e non sempre in buona salute: da almeno 500 anni erano state smantellate le serre di More in cui si coltivavano le città ideali; ne restavano ancora alcuni esemplari sparsi qua e là, forme ibride e snaturate da sovrapposizioni e contaminazioni. Mi ritornava la visione degli alberi che abitavano la terra milioni di anni fa, e poi gli uomini che addomesticavano gli alberi e le pietre. C’è stato un tempo in cui abbiamo vissuto nel deserto sotto le tende e le costellazioni si aggrappavano al buio. Quando ci sentivamo minacciati dai lupi e dallo straniero, un fossato e una palizzata ci facevano sentire al sicuro. E in tempi felici abbiamo aperto una piazza con portici e colonne. Alte, una sull’altra. Elevate. Come quella volta a Babele. E dopo di allora, migliaia di tentativi e innumerevoli torri. Infine, quante città? Qualcuno si è mai preso la briga di contarle? La foresta di cemento è cresciuta a vista d’occhio e nel sottobosco le baracche come i bulbi a primavera, spingono verso la luce e si propagano, si propagano, si propagano. Ora che il deserto ha le sue torri orizzontali e il mare i suoi cimiteri liquidi, voglio mostrarti una cosa: lassù all’ultimo piano c’è una finestra aperta, qualcuno sta aspettando che faccia buio per assicurare il suo respiro ad una stella. Fa così ogni sera. Soffre di vertigini. Scusa se insisto caro C. In questo miscuglio di metafore vorrei trovare una risposta alla domanda: “Che cosa sono oggi le nostre città?” . La nuova tavola della città contemporanea potrebbe prendere questa forma tanto irreale quanto possibile? Come erano ideali e utopiche le Tavole delle città del Rinascimento, come inesistenti e fantastiche le città invisibili, così è frutto di invenzione anche Favolas. Il rischio che non sia solo una visione personale e un po’ drammatica, ma che possa realizzarsi, temo che esista. Penso agli insediamenti spontanei e alle periferie urbane in cui una città cresce nella città, dentro e sopra la città, senza un ordine preciso, o un progetto. Per necessità. Per disperazione. Nessuna nostalgia e pochi indugi come puoi notare, solo necessità di continuare a salire. La solita sfida o il desiderio di conquista mai sopito nel cuore di ogni uomo. Ma la meta è il cielo e ogni cosa lassù si tinge d’azzurro. Ecco la Favola(s) è conclusa e il finale, come in tutte le favole, vuole essere almeno lieve.